La missione di Elisa

Una nuova casa 

Avrei voluto sedermi per terrà.
In qualunque posto andassimo, ovunque, avevo come un istinto di fermarmi e sedermi su quella terra rossa. Respirare profondamente ad occhi chiusi. Ascoltare tutti i suoni, i rumori, i silenzi che mi circondavano. E poi aprire gli occhi, per essere travolta da una luce limpida e da tutti quei colori sgargianti.

Ciao a tutti, piacere, io mi chiamo Elisa. Ho venticinque anni, sono nata a Padova e da qualche tempo vivo a Monaco di Baviera. 
A tutto avrei pensato, fuorché che questa esperienza di vivere in Germania mi desse il coraggio di fare un passo così importante per la mia vita e per la mia crescita personale: partire per una missione.
La sete che mi ha spinta a partire per la Guinea Bissau la ritrovo nella parola Verità”. Desideravo avere luce su tutte quelle cose che nella vita mi sono successe, per capire come effettivamente parlassero di me. Ed è questa sete, accentuatasi in questi mesi di grande confusione, che mi ha dato il coraggio di scegliere di intraprendere un viaggio missionario per il quale non tutti erano favorevoli. 

Le motivazioni contrarie erano tante: partendo dalla lontananza, fino al fatto che mi avrebbe messo molto alla prova sfidando alcune delle mie debolezze. 
Ci sono state però anche tante altre persone che senza esitazione hanno creduto in questa mia avventura, comprendendo  come, sotto sotto, da sempre l’avessi aspettata e che avrebbe messo luce a tutto il filo rosso della mia vita. 

Una di queste persone è stata “Nonna Teresa”.

Da quando sono bambina conosco “Nuova famiglia”. Ogni anno aspettavo con ansia il mese di settembre per poter partecipare alla festa dell’associazione, dove rivedere i miei amici, comprare al mercatino qualcosa che avesse il profumo d’Africa e ammirare le foto di quei volti e di tutti i progetti realizzati così lontani da me. Eppure non era solo la nuova maglietta dell’anno che aspettavo ma, nonostante ancora non l’avessi capito, volevo circondarmi di persone che condividevano questa grande passione e questo grande sentimento d’amore con me.  
Nonna Teresa c’era sempre, e sempre c’è stata durante tutta l’organizzazione del viaggio e durante la missione di per sé. Una grande Donna, con la D maiuscola che possiede un cuore immenso, che non ha mai lasciato nessuno indietro, che non si è mai tirata indietro riuscendo a superare se stessa non solo fisicamente ( durante la missione non avevamo a disposizione molto confort), ma anche emotivamente e mentalmente, mettendosi sempre in discussione e in gioco.

 

Dopo mesi di preparativi da parte dell’associazione, del presidente Michele, di Erika, di Nicola e di tutti coloro che erano coinvolti nel viaggio in Italia e in Guinea Bissau, preparate le valigie, il visto  e somministrati i vicini: ecco che si parte!
Sin dal primo giorno e dai primi incontri ho capito che quella realtà mi apparteneva.  Esprimere a parole la gratitudine per tutto ciò che ho potuto vedere, per tutto ciò che i miei occhi hanno potuto ammirare e tutte le persone che ho potuto incontrare, mi risulta molto difficile. Forse le foto aiutano meglio non solo a ricordare ma anche a capire molto della missione, perché tutto ciò che è impresso su di una fotografia, è reale, tangibile. 

Tante le emozioni e i sentimenti provati durante tutto il viaggio, spesso anche contrastanti tra loro e che a distanza di tempo fanno emergere ancora molti interrogativi. 
L’incontro con i bambini della Casa di accoglienza di Bambaran è stata una delle esperienze più intense che io abbia provato durante tutta la missione. 
L’amore che ci ha travolto appena entrati nella struttura, anzi ancora prima, dal cortile, era veramente incondizionato. Un amore che ha travolto qualsiasi barriera: linguistica, culturale e anche di età. 
Negli occhi di quei bambini c’era amore puro, anche verso gli sconosciuti, persone mai viste prima. Ecco, grazie a loro ho avuto la prova più concreta nella mia vita, per comprendere che siamo tutti fratelli e sorelle.

 

Tutti i volti che ho visto non li riuscirò facilmente a dimenticare. Quegli occhi, quei sorrisi aperti pieni di gioia e probabilmente dolore allo stesso tempo; la tristezza negli occhi quando dovevamo fare un passo più in là rispetto a loro. 
Si andava per giocare, regalare qualche caramella e fare un po ‘ di canti e balli. 
Tra i ricordi delle due visite alla Casa, mi ritorna spesso alla mente un momento particolare. Era il secondo giorno che facevamo visita ai bambini della struttura e mentre quasi a turno prendevamo un po’ il fiato dalle continue corse  e risate, un bambino si è seduto sulle mie gambe, mi ha guardata, mi ha chiesto da dove venissi, perché fossi lì, se volevo essere la sua mamma. Quando con gli occhi commossi gli risposi “sì”, credendo stessimo ancora giocando ma consapevole del peso di quelle parole, mi disse: “ma allora quando mi porti a casa con te?”.

Emozioni grandi, davvero molto difficili da esprimere a parole, che mi accompagnano nella vita di tutti i giorni.
Un altro ricordo molto emozionante è legato ad una festa che fecero gli abitanti di Catiò per accogliere il ritorno di un padre del PIME, per molto tempo missionario nella zona. A quella festa vidi un pizzico della cultura, della cura e dell’amore di quelle persone. Rimasi affascinata dai balli, dai vestiti anche solo abbozzati con qualche stoffa, dai ritmi di quelle musiche così coinvolgenti e dai suoni così profondi che davvero facevano vibrare dentro.

 

Dopo pochi secondi dal nostro arrivo i bambini ci corsero subito incontro, anche in quella occasione. Non c’era paura o diffidenza, solo voglia di giocare e di scoprire chi fossero quelle nuove persone. Mi ritrovai seduta in uno dei primi banchi, circondata da bambini:  uno di essi contava un po’ stranito i miei nei, un’altra mi lisciava i capelli provando ad intrecciarli ma non riusciva a comprendere perché continuassero a disfarsi, un’altra ancora mi accarezzava la pelle. Ed ecco arrivare una bambina di massimo otto anni con suo fratello di poco più di un anno, fra le braccia. Me lo consegna mettendolo seduto sulle mie gambe, con una manualità tale che sembrava fosse abituata a gestire bambini così piccoli. Io ero impacciatissima, non mi è capitato spesso di tenere creature così piccole in braccio, ed anche questo mi fece e fa molto pensare. Il bambino forse era più in imbarazzo di me, ma non pianse e guardò la sua manina poggiata sulla mia per diversi minuti, immobile. Chiesi alla sorella se stavo sbagliando qualcosa e mi rispose di no, ma solo che il fratellino non era abituato a stare in braccio ad un bianco.

Spesso mi hanno chiamata “Blanca”, anche per strada quando ci vedevano passare, oppure “Irma”, che significa sorella o suora, perché porto sempre al collo un tau. Quando dicevo la mia età e che non avevo figli, per loro significava per forza di cose che ero una suora.

Tutto quello che ho vissuto mi ha aiutata a guardarmi dentro, e mi accompagna nel quotidiano giorno dopo giorno.

Ho capito che tutti possiamo fare qualcosa per l’altro, sia esso vicino o lontano. Per chi può, l’aiuto economico è sicuramente importante, ma anche la presenza o la testimonianza, sono strumenti per avvicinarci e permetterci di conoscerci e amarci l’un l’altro.

Dopo questa esperienza sento vivo il desiderio di tornare in missione. È forse questa la mia verità? 

Ci sono visi, albe, luoghi che voglio rivedere e nuovi ancora da scoprire.

Elisa